_Poi c’era la seconda vita dell’ufficio, la vita vera.
Prendevano in giro il dirigente più anziano, che aveva un grande talento ma diventava ogni giorno più intrattabile (era chiaro a tutti fuorché a lui che non sarebbe mai diventato socio dello studio), ma anche i progetti sui quali stavano lavorando: la chiesa neo-copta di travertino in Cappadocia, che non era mai stata realizzata; la casa senza strutture portanti visibili a Karuizawa, con le superfici in vetro che volavano ruggine; il museo del cibo a Siviglia, che avrebbe dovuto vincere un premio ma non lo aveva ottenuto; il museo delle bambole a Santa Catarina, che invece era stato premiato contro ogni previsione.
Si facevano beffe delle università che avevano frequentato e del fatto che, per quanto fossero stati avvisati che avrebbero fatto la fame per anni, tutti, nessuno escluso, si erano convinti di poter essere l’eccezione che conferma la regola (e tutti, in segreto, continuavano ostinatamente a crederlo). Si prendevano in giro perché guadagnavano pochi spicci, e perché avevano ventisette anni, o trenta, o trentadue, e vivevano ancora a casa dei genitori, o dividevano una stanza , o erano andati a stare con la loro ragazza, che lavorava in banca, o con il loro ragazzo, che era stato assunto da una casa editrice (ed era difficile immaginare una cosa più umiliante del dover campare alle spalle di una persona impiegata nell’editoria, perché guadagnava comunque più di te). Si vantavano dei mille mestieri che avrebbero potuto scegliere, se non fossero finiti in quel maledetto studio di architetti: il curatore di mostre (forse l’unico lavoro in cui avrebbero guadagnato ancora meno); il sommelier (e con quello erano due); il gallerista (e si arrivava a tre); lo scrittore (e va bene, quattro: evidentemente nessuno di loro aveva i requisiti per diventare ricco, neppure nei sogni). Discutevano di edifici che amavano, e di altri che odiavano. Dibattevano su mostre di fotografia o di videoarte. Sbraitavano e si prendevano a male parole, confrontando le rispettive opinioni sui critici, sui ristoranti, sulle filosofie e sui differenti materiali. Si commiseravano a vicenda, parlando di aspiranti architetti come loro che avevano avuto successo, e si compiacevano pensando a tutti quelli che invece avevano cambiato mestiere, diventando allevatori di lama a Mendoza, assistenti sociali a Ann Arbour o insegnanti di matematica a Chengdu.
Durante il giorno giocavano a fare gli architetti.
Aveva frequentato la facoltà di architettura per quella che ora gli sembrava la peggior ragione immaginabile: perchè amava gli edifici. Si trattava di una passione rispettabile, e quando era ancora bambino i suoi genitori erano stati ben lieti di assecondarla, facendogli visitare palazzi e monumenti ovunque andassero. Fin dalla prima adolescenza aveva sempre disegnato edifici immaginari e costruito modellini di strutture altrettanto immaginarie. Gli erano di grande conforto e rappresentavano una vera e propria valvola di sfogo: sembrava quasi che potesse riversare in ognuno di quei progetti tutto ciò che non era in grado di esprimere a parole, o di decidere._
Breve e triste brano tratto dal libro “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara.
Breve e triste storia che ci rammenta che tutto il mondo è paese, che le passioni che ci accomunano sono alquanto comuni quasi a tutti, che mal comune fa mezzo gaudio e che è proprio vero che “se vuoi la vita facile non devi fare l’architetto“.