Tutti ne parlano. E ne parlano bene, forse fin troppo. “Parasite“, la pellicola sud-coreana del regista Bong Joon-oh, quello di “The Host” (2006) per intenderci, sta facendo discutere di se, nel bene (tanto) e nel male (poco). Che poi l’importante è che se ne parli. E qui gli aggettivi e appellativi si sprecano, “un film che parla di spazi”, “una satira amara”, “una storia di classi sociali”. E tra le varie accezioni nessuna recensione si esime dallo spoilerare parti cruciali del film.
Premessa, e promessa: questo articolo non anticipa nulla di significante ma accenna in maniera molto sintetica alla trama senza svelarla!
Che abbia vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes è scontato, che sgomiterà per la statuetta agli Oscar come miglior film straniero è un dato di fatto.
Ma cosa è veramente”Parasite“? E’ un film fatto bene, dove la maestria degli attori che entrano in scena e di quelli che restano dietro le quinte è presumibilmente lodevole; dove il tono parte calmierato poi incalza. E’ un film che coinvolge, e un po’ sconvolge. E’ un film che parla di poli opposti in antitesi, di prevaricazione di classi sociali, di poveri e di ricchi, di stenti e di denaro, di disperazione e di violenza. E’ un film che parla di fiducia e di ingenuità, di menzogna e di verità; di sogni e di speranza, di determinazione e di riluttanza. È un piano seminterrato degradato e fatiscente che si contrappone ad un’ambita villa dal design contemporaneo progettata da un architetto di fama nazionale. E’ un film fatto di spazi tangibili, che sono lo specchio della personalità, e della disponibilità economica pure, e di spazi interstiziali che esplorano l’anima; di vuoti e di pieni, di aperto e di chiuso, di ampio e di occluso. È un film dove l’architettura ha il dono della parola. E’ un film dove la scenografia diventa parte integrante della narrazione, al pari della sceneggiatura; dove la fotografia (pazzesca) ha un ruolo cruciale nel fissare attimi, pensieri che contano. E’ salita e discesa, nel vero senso della parola e nel senso metaforico dell’accezione. È una famiglia povera e senza lavoro, in bilico sullo sconforto dell’accettazione, che escogita una via d’uscita da una quotidianità così infima; ma è anche una famiglia ricca che vive adagio nel proprio agio, concedendosi il lusso dell’ingenuità perché i ricchi si possono permettere di essere creduloni. E’ un tentativo di scalata sociale che si avviluppa su di un piano famelico, sfacciato e diabolico, messo in atto con acume e sfrontatezza. È la messa in scena di un retaggio culturale che lascia l’amaro in bocca in maniera drammatica e grottesca in parti eguali. È razzismo di classe. È un film dove, come nella vita, la verità viene sempre a galla. E’ un film che induce alla riflessione, che sconfina nella degenerazione, e la degenerazione è sempre una caduta di stile. Ed è proprio degenerando che l’eloquenza del racconto perde quota, sino a precipitare nell’abisso della violenza. Sino a divenire un boccone un po’ indigesto difficile da metabolizzare.
Bello, ma non eclatante. Originale, ma non incredibile. E per fortuna, perchè è forse proprio questo essere un po’ fuori dagli schemi ma con garbo che ha fatto andare in fibrillazione cinefili e non alla visione di questo gran bel film. Un film che, tra l’altro, concilia due mie passioni: l’architettura vasta e minimale e l’atmosfera ipnotica del sud est asiatico. Sicuramente un film da non perdere.