Spiazzante, inquietante, angosciante.
Irriverente, assurdo, attuale.
Feroce, sanguinoso, impavido.
Geniale.
L’ho visto perché parla di reclusione, e questo tema non può che essere in voga dato il periodo di “quarantena” che stiamo attraversando. L’ho visto perché già dal trailer sembrava d’impatto. L’ho visto perché tutti ne parlano, bene tra l’altro. L’ho visto perché è in lingua originale spagnola e, a mio avviso, lo spagnolo in fatto di savoir-faire non ha eguali. L’ho visto perché il regista Galder Gaztelu-Urrutia è un esordiente promettente, spagnolo tra l’altro, e come tutti gli esordienti merita fiducia. L’ho visto perché la scenografia brutalista, fatta di cemento armato a vista, intravista in locandina, già mi ha fatto scalpitare il cuore. L’ho visto perché è su Netflix e, quindi, alla portata di tutti o quasi. L’ho visto in preda ai conati di vomito. L’ho visto chiudendo spesso gli occhi, in preda a sobbalzi di umore e rivoltamenti di stomaco già a partire da quell’intro musicale a dir poco inquietante. L’ho visto perché devo poi dire la mia, come al solito. L’ho visto perché Il Buco è scontato essere un film che lascia il segno.
Un film che si porta dietro un carico di aspettative alte essendo il più [in]discusso del momento. Un film all’apparenza atemporale ma nel profondo mai così attuale, dove quel buco è mai come ora la metafora del presente in cui viviamo. Quel buco quadrato al centro di innumerevoli piani detti livelli, asettici e spartani, minimali e un po’ brutali, che si sviluppano verso il basso, ospitando coppie di “ospiti” rinchiusi in quella sorta di prigione verticale, senza sbarre e senza manette, per obbligo o per scelta. Quel buco dove una volta al giorno viaggia una piattaforma fluttuante imbandita da prelibatezze culinarie, atta a sfamare tutti gli ospiti presenti ai vari livelli, dall’alto verso il basso, che scende colma di cibo e di speranza e risale vuota di cibo e di umanità, a beneficio dei piani alti e a discapito di quelli bassi. Quel buco dove il cibo viene divorato egoisticamente entro un tempo limite ridotto e diradato, discendendo negli inferi dei piani bassi come in una sorta di girone dantesco. Quel buco dove gli internati lasciano fluire gerarchicamente speranze, sfoghi, repulsioni, moralismi, vite interrotte. Perché “ci sono tre tipi di persone: quelle che stanno in alto, quelle che stanno in basso e quelle che cadono”. Non oso dire altro perché poi si perderebbe il gusto della prima visione. La trama è molto vaga e lascia ampio spazio alla libera interpretazione. Il soggetto è tratto da un’opera teatrale riadattata a prodotto cinematografico con abile maestria, complice anche una fotografia interessante. La reclusione si rivela essere una sorta di esperimento sociologico che punta ad un cambiamento sociale: peccato che il cambiamento non avviene mai spontaneamente. Difatti la solidarietà spontanea che la pellicola si prefissa è un’utopia, nel film come nella realtà.
Il tema ricorrente della gerarchia di classe è trattato in maniera esplicita tramite la metafora della stratificazione dei vari livelli, e tange tematiche collaterali come quella dell’egoismo sociale e dello spreco alimentare, tanto cari, quanto ostici, nella società odierna. Le riprese prettamente zenitali non fanno altro che alimentare la percezione di quella gerarchia che va dall’alto verso il basso, proprio come molte inquadrature.
L’inizio fa scalpore, suscitando un’ampia curiosità che si affievolisce lentamente sino ad incappare in una fine blanda, fin troppo.
Attenzione: non adatto ai vegetariani.
Rieccomi! Ti vengono in mente altri film che lasciano il segno?
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Se non l’hai già fatto vedi Parasite. Indubbiamente lascia un bel segno.
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Me l’aveva consigliato anche il grande https://lapinsu.wordpress.com/, devo assolutamente vederlo. Grazie per la risposta! 🙂
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