Non è facile stare a casa. Per me non lo è mai stato.
Soffro di iperattivismo cronico, è un dato di fatto. E pure, un po’, di claustrofobia. Ho le gambe che fremono, che hanno bisogno di andare. Ho gli occhi smaniosi di esplorare il cielo, il mare, la quotidiana normalità che si riverbera per le strade. Ho nel petto un’insaziabile voglia di ammirare e immortalare la bellezza di questo mondo che ci accoglie. Ho nel cuore un’irrefrenabile voglia di fare cose, magari diverse, o magari anche solo di andare a comprare il pane fresco al supermercato giusto per prendere una boccata d’aria. Ho nella mente il bisogno di programmare quel prossimo viaggio che possa colmare la mia sete di conoscere, di aver un biglietto aereo prenotato, un concerto programmato.
Ho lavorato molto su me stessa per cercare di andare in avanscoperta del piacere di stare a casa, del relax, della copertina sulle gambe.Ho lavorato molto su me stessa per cercare di tenere a freno la mia ansia, di contenere talune paranoie, di tenere a bada la mia ipocondria, di non pensare alla forza batteriologica dei germi che ci circondano.
E quando c’ero quasi riuscita, eccallà: una pandemia come solo nei film più catastrofici, più fantasiosi, più estremi. Un virus contagioso come solo un regista da premio Oscar potrebbe immaginare. Un’emergenza sanitaria come solo una profezia altamente pessimista potrebbe rappresentare.
E ora che ci incitano a stare a casa, a lavorare possibilmente tra le mura domestiche, ad abbassare le saracinesche delle attività commerciali, a non uscire se non per lo stretto necessario, a leggere un buon libro sul divano, a fare maratona di serie tv, a bazzicare ancor di più sui social (ancora?), a cambiare le nostre abitudini, a mantenere le distanze, a non fare vita sociale, a essere ancor più sociopatici di quanto già non lo fossimo diventati, mi sento pervasa da un senso di oppressione. Che poi è quasi un nulla in confronto a quella sensazione di assurdità paradossale che mi pervade da giorni, che mi fa svegliare al mattino con la solita frase retorica “Sogno o son desta?” che aleggia nella mia testa non appena accendo la tv o consulto un giornale online. Perché a tutto questo io stento ancora a crederci. Perché ha del paradossale che sa di assurdo e che puzza di catastrofe. Perché non capisco se ci sono o ci fanno, se i giornalisti dicono sempre il vero, se i dati sono aggiornati e comprovati, se la situazione è davvero così grave o se vogliono farla apparire tale, se è solo un virus un po’ più virulento di quello influenzale o se c’è qualcosa sotto.
Fermare il mondo? Si, dovremmo. Ma solo se il mondo si ferma tutto, non a tratti, a giorni alterni, le scuole si e i supermercati no, i cinema chiusi ma i bar aperti, gli aerei a terra ma i treni in corsa. Fermare il mondo a metà: che senso ha? O tutti o nessuno. E fermare tutti sarebbe più che paradossale, se non addirittura impossibile. L’economia collasserebbe, più di quanto non l’abbia già fatto in questi ultimi anni di crisi, e a quanto pare per chi ha il potere decisionale questo conta molto più della salute del mondo intero.
E se fermarsi in tronco non può essere la soluzione, rallentare si. Rispettare le regole. Armarsi di civiltà. Contenersi. Ammonire il prossimo affinché si tenga a debita distanza di sicurezza. Mantenere le distanze. A malincuore. Con sforzo.
Che poi questa cosa del metro [minimo] di distanza dal prossimo, se il prossimo è uno sconosciuto, a me non dispiace affatto. Anzi, a mio modesto avviso, da schizzinosa quale sono, potrebbe durare per sempre come segno di rispettosa civiltà. Ti evita alitosi sgradite, sentori residui di qualche spicchio d’aglio di troppo, esalazioni di ascelle pezzate, quelli schizzi di saliva di cui ho sempre avuto repulsione, spionaggio di peli superflui del viso che non hai avuto modo di estirpare, accolli non richiesti, urti maldestri, contatti fisici non graditi. Per non parlare del fatto che ora ho la scusa buona per non far ciucciare dalla mia stessa cannuccia un sorso di cocktail ad un’amica o ad un amico curiosi, perché a me la saliva dell’altro, sconosciuto o conosciuto che sia, mi ripugna da sempre. Sempre a patto che uscire a bere un drink ci sarà ancora concesso.
Che poi questa cosa che ci si richiede di evitare gli spostamenti non necessari, di sopire, di frenare, di disintossicarci forzatamente dallo stress della frenesia della routine di ogni giorni, di fare qualcosa che ci piace nella nostra comfort zone, di provare a salvare questo mondo infame stando comodamente seduti a casa sul divano in pigiama, non è poi così male. Diciamocelo pure.
Io mi sto sforzando, ci sto provando a tenere a bada la mia indole esploratrice, a tenere a freno la mia voglia di fare, di vedere. Però dovete farlo anche voi. Perché l’unione fa la forza, ma a debita distanza [almeno per ora], questo dovrebbe ormai essere chiaro!
Restiamo distanti oggi, per abbracciarci più forte domani. Parola di Giuseppe Conte. E parola di un’iperattiva sognatrice, schizzinosa, romantica e anche un po’ affettuosa, ma solo con le persone che ben conosce.